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Frammenti di mondo, Storia

Il conflitto totale che non ci tocca

1618. Fu l’anno d’inizio di uno dei conflitti più catastrofici mai abbattutosi nei territori dell’Europa centrale e, a detta di Nicolao Merker (filosofo e scrittore italiano della prima metà del ‘900) fu, con i suoi 12 milioni di morti, “in assoluto la maggiore catastrofe mai abbattutasi” sulla Germania.

Le cause della guerra dei Trent’anni furono varie, ma la principale fu l’opposizione religiosa e politica tra due caste dello stesso credo: cattolici e protestanti. Fu proprio la Riforma di Lutero, che interessò la Chiesa nel XVI secolo, a mettere cristiani contro cristiani in un enorme conflitto che si sarebbe concluso nel 1648 con la Pace di Westfalia, poi completata con il Trattato dei Pirenei, del 1659, che mise fine alle ostilità tra Spagna e Francia.

Sono molti, in questi giorni, i giornali che si lanciano a paragonare ciò che ora sta accadendo alla comunità islamica a ciò che accadde quattro secoli fa alla comunità cristiana, e l’ultima mossa dell’Arabia Saudita (l’uccisione di 47 persone tra cui quella del religioso sciita Nimr al Nimr) non fa che rafforzare questa similitudine: i musulmani, divisi in sunniti e sciiti, stanno vivendo oggi quello che successe ai cristiani nel sedicesimo secolo.

Ma prima di arrivare al presente, è doveroso definire i due gruppi, per chiarire le cause (inizialmente religiose, poi politiche) di queste ostilità che, mescolate alle varie presenze di gruppi terroristici, fanno trattenere il fiato non soltanto alla scena nazionale del Medio Oriente, ma anche a quella mondiale. Tutto ha inizio con la morte di Maometto, nel 632, che vide mettersi in atto una grande opposizione ideologica tra due blocchi contrapposti. La prima scuola di pensiero, quella sunnita, sosteneva che il legittimo califfo (leader della comunità islamica) fosse Abu Bakr (un importante studioso islamico e compagno fidato di Maometto) e che le decisioni sciite fossero dettate dall’eresia: non casualmente il termine “sunnita” deriva dall’arabo “Ahl al Sunnah” (che significa “il popolo delle tradizioni di Maometto”) in quanto i seguaci di questa scuola si ritengono l’identità più ortodossa e tradizionalista dell’Islam. La minoranza sciita, invece, prediligeva che il ruolo del califfo spettasse al cugino del profeta, Ali ibn Abi Talib, infatti il termine “sciita” deriva dall’arabo “Shi’atu Ali”, ovvero “sostenitori (politici) di Ali”, genero di Maometto. Le differenze tra i due gruppi continuano: nell’Islam sunnita l’ummah, la comunità islamica, è cappeggiata completamente dal califfo, una figura prettamente politica, mentre l’imam è semplicemente un figura religiosa che detiene, come unico compito, la guida della preghiera in moschea; nell’Islam sciita la figura dell’imam è quella di un leader politico e religioso della ummah: gli sciiti riconoscono ufficialmente dodici imam, tutti appartenenti alla famiglia del profeta Maometto. Altre avversità nascono sul fronte teologico, quello che riguarda la lettura del Corano, ove i sunniti basano la loro pratica religiosa seguendo unicamente la sunna (gli atti e gli insegnamenti del profeta) mentre gli sciiti vedono nell’Ayatollah, il leader religioso, un riflesso divino sulla terra da seguire. E così, mentre i sunniti accusano la dottrina meno ortodossa sciita di eresia, gli sciiti sottolineano come il dogmatismo tradizionalista sunnita abbia dato vita a sette estremiste, come i puritani wahabiti.

Va detto che una delle più importanti differenze tra le due scuole di pensiero rimane quella di tipo demografica, che arreca gravi ripercussioni anche nell’ambito sociale. I sunniti costituiscono l’87/90% della popolazione, contro il misero 10/13% degli sciiti, e ciò ha infuso, nella mentalità dei sostenitori di Ali, un grave senso di oppressione ed emarginazione, esplicato anche nella pratica religiosa della ashura: una cerimonia di lutto in cui i fedeli si flagellano per ricordare la morte dei Hussein a Kerbala.

Negli ultimi anni l’arroventarsi della situazione ha inizio con la rivoluzione iraniana, che ha rovesciato il re locale (lo Scià, alleato con gli USA) nel 1979 per sostituirlo con una teocrazia islamica sciita, nonostante l’ostilità con tutti i paese di stampo sunnita nel Golfo Persico. Gli otto anni successivi furono segnati da una guerra avviata dall’Iraq di Saddam Hussein che, approffittando della debolezza del neonato regime, invase l’Iran nel 1980. La guerra definì due blocchi: i paesi sunniti rafforzarono la loro inimicizia contro la “mezzaluna sciita”, costituita da Iran, Siria ed il movimento libanese che punta alla distruzione di Israele, Hezbollah. C’è da dire che, a fomentare i conflitti, si aggiungono anche le varie alleanze: a fianco del leader siriano Bashar al Assad si è aggregata la Russia, ed a fianco dell’alleanza contrapposta agli sciiti (Egitto e Arabia Saudita) sono intervenuti gli Stati Uniti. Poi c’è la questione del terrorismo: Hezbollah è una potente milizia sciita ma negli ultimi anni i due gruppi militari più forti (al Quaida e ISIS, che sono dopotutto in opposizione l’uno dell’altro) sono formati da sunniti radicali. Questo conflitto di interessi gioca a sfavore per il governo di Assad, già combattuto sia da ribelli “moderati” sia da milizie sunnite fra cui il Fronte al Nusra, e la possibile caduta di questo regime porterebbe nuove forze all’ISIS: ancora oggi ciò significa rischiare una maggiore penetrazione dello Stato islamico e dei gruppi sunniti in Siria.

Ma qual è il ruolo dell’Occidente in questa nuova guerra totale? Questo paesaggio devastato e terrificante è a poca distanza da casa nostra. I milioni di rifugiati che si riversano sul vecchio continente ce lo ricordano. Eppure ben pochi intravedono dietro questo conflitto il vuoto politico che si lascia alle spalle: come all’epoca dell’era pre-moderna in Europa, alla radice c’è la mancanza di una leadership internazionale che sappia mantenere in equilibrio i vari poteri. Sebbene la minaccia nucleare sembra non essere più un timore rilevante, quest’arma, grazie alle moderne innovazioni, non solo è più pericolosa che in passato, ma è anche in mano a tante nazioni. Né Washington, nè Bruxelles hanno una nitida visione sul da farsi in Medio Oriente ed improvvisano, chi troppo preso dal vento cangiante dell’opinione pubblica e chi invece troppo preso dalle campagne elettorali, dando vita ad un confuso ostruzionismo decisionale che tende ad incendiare una guerra insostenibile.

Intontiti ed assordati dai battibecchi in tv e nei social media, europei ed americani si trovano incapaci di formulare una propria opinione sui fatti in Medio Oriente e, di conseguenza, incapaci anche di strattonare le redini di chi li governa. Perché, dopotutto, l’idea che questa Europa torni ad essere una vittima e che gli Stati Uniti debbano intervenire come avvenne più di settant’anni fa ci pare assurda. E tra tutto questo caos, noi che ancora contiamo nell’importanza della politica estera per la pace nel mondo, abbiamo solo una certezza: tra sunniti e sciiti, l’Europa non si schieri.

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