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Lettera ad Angela Merkel

Gentile Signora,

Le scriviamo dall’Italia, dopo aver seguito le elezioni tedesche con molto interesse  e poca apprensione. Per settimane abbiamo prestato una attenzione forse eccessiva ai sondaggi che la davano in ampio vantaggio sul suo principale antagonista da poco alzatosi dalla confortevole poltrona del Parlamento europeo e svantaggiato da una minor conoscenza dei dossier nazionali. In effetti Martin Schulz non è riuscito nemmeno ad avvicinarsi al suo 33%, anche se sarebbe ingeneroso caricare solo sulle sue spalle le responsabilità di un così vistoso rovescio e dimenticare che la Spd è da tempo in declino.

Ci siamo così lasciati sorprendere dalla clamorosa affermazione dell’AfD, il partito oltranzista che adesso entra in forze al Bundestag a guidare una destra xenofoba, razzista e antieuropea. Tutti ne conoscevano l’esistenza, ma pochi prevedevano che avrebbe raccolto un consenso così ampio da diventare addirittura un pericolo per la democrazia tedesca. Potrà infatti rivendicare qualche sedia importante, far sentire il suo peso nelle decisioni più controverse, introdurre nella vita politica tedesca forme di insofferenza ideologica che parevano definitivamente superate.

Tuttavia la sua Cdu rimane il primo partito di Germania. Ha perso punti, ma è presente in vasti strati della società civile, dispone di una solida organizzazione e di uomini di esperienza. Per questo crediamo che non si farà portar via il pallino nei giochi per la formazione del nuovo Governo e proverà a convincere i socialdemocratici a continuare la collaborazione, oppure tentare strade alternative coinvolgendo altre forze come i liberali di Christian Lindner e i Verdi di Eckard-Ozdemir. Indipendentemente dall’esito delle alchimie governative, ci sembra difficile possa essere messa in discussione la sua leadership, che per oltre un decennio ha dimostrato di saper esercitare con fermezza, senso di responsabilità e rispetto per le garanzie democratiche.

Lei ha preso meno voti di quanto sperasse, ma le saranno sufficienti per salire al suo quarto Cancellierato e, pure indebolita, guidare la Germania verso traguardi ancor più ambiziosi di quelli già raggiunti. Il suo Paese ha una economia di eccellenza, diversificata e competitiva, ampiamente al di sopra della media europea. Nel 2016, per ricordare un paio di dati, il Pil è cresciuto dell’1,9% e gli occupati hanno superato i 40 milioni su una popolazione di 80. Sono risultati notevoli, in parte dovuti a virtù nazionali, che lei non ha mancato di sottolineare in molti incontri. Per altra parte sono dovuti all’appartenenza all’eurozona, che lei ha tenuto in secondo piano o addirittura cercato di velare, sapendo che la Germania ne ha approfittato ampiamente e perfino scorrettamente. Con la moneta unica, il suo Paese ha spinto il proprio export a livelli mai raggiunti e si è meritato richiami anche formali da parte della Commissione europea. Le è stato più volte fatto rilevare che il surplus commerciale della Germania comprometteva le economie dei partner e le è stato chiesto di far propria una visione più equilibrata degli interessi dell’Unione. A inviti come questo, lei però non dato ascolto e ha perseverato nella storica linea di austerità, richiamando i partner all’osservanza dei parametri di Maastricht sui bilanci pubblici, mentre lei violava quelli sul commercio estero. Di conseguenza, la Germania ha continuato a prosperare producendo più di quanto le servisse ed altri Paesi sono andati in deflazione,  non potendo usare la leva monetaria per difendersi. Nel tempo la situazione è peggiorata e il surplus ha raggiunto i 300 miliardi di dollari nel 2016, superando la Cina. Riportiamo il dato in questa moneta, perché il problema non è solo europeo. Il Tesoro americano ancora sotto l’amministrazione Obama l’ha accusata di puntare troppo sulle esportazioni e di tenere congelata questa astronomica cifra, anziché rimetterla in circolo a beneficio di tutti. Da parte sua il Fmi l’ha accusata di ripararsi dietro l’euro, ritenendo che un eventuale marco tedesco avrebbe una valutazione superiore del 15 – 20% e che in queste condizioni non sarebbe altrettanto facile esportare.

Delle pressioni americane si è accorta solo con la nuova presidenza Usa, dopo che Trump l’ha minacciata di imporre dazi sui prodotti tedeschi e l’ha perfino trattata con maleducazione. Allora lei ha invocato la solidarietà europea, dando tuttavia l’impressione di intenderla a senso unico, come se le fosse dovuta in quanto leader del più forte dei Paesi dell’Unione; come se potesse nascere dalla frammentazione politica che lei stessa ha contribuito a creare, intrattenendo rapporti bilaterali dentro e fuori l’Europa in una logica di potenza nazionale. Ma la solidarietà si basa su un rapporto di reciprocità e sul piano istituzionale trova la sua miglior espressione nel federalismo, che non le abbiamo mai sentito nominare. La scorsa estate ha acceso qualche speranza, dichiarando di essere favorevole in linea di massima al bilancio autonomo dell’eurozona e al relativo Ministro del Tesoro, che sono riforme di primaria importanza per l’approfondimento dell’integrazione. Ma non ha manifestato alcuna disponibilità a ripensare le relazioni con i Paesi membri, legittimando più di un sospetto sulle sue reali intenzioni.

Federalismo significa fiducia tra partner. Se si costituisce un clima di questo tipo, i vantaggi non saranno solo per l’economia, ma si ripercuoteranno anche in altri settori nei quali serve una coesione ancora maggiore. L’immigrazione, la difesa e la sicurezza sono questioni epocali, che non possono essere affrontate a Berlino nemmeno in asse con Parigi, dove si è insediato un ambizioso nazionalismo. Mentre non abbiamo dubbi sul fatto che lei ne sia consapevole, attendiamo un segno delle conseguenze politiche che intende trarne. In questo caso, con molto interesse ed altrettanta apprensione.

 

 

 

 

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