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Un Nobel meritato

Il premio Nobel per la pace 2019 è stato assegnato ad Abiy Ahmed Ali, primo ministro dell’Etiopia. In molti ipotizzavano che questo sarebbe potuto andare alla giovane attivista svedese Greta Thunberg, famosa per i suoi scioperi per il clima. I suoi sostenitori, infatti, avrebbero voluto l’assegnazione per farne un simbolo ancora più forte della lotta ai cambiamenti climatici e più di qualcuno è rimasto deluso dalla decisione della commissione di Oslo.

In realtà, il premio per il politico etiope è stato più che meritato. Insediatosi ad Addis Abeba nell’aprile del 2018, ha ereditato una situazione politica complessa. L’Etiopia è infatti una nazione multietnica, che in passato ha più volte sofferto di guerre interne tra i vari gruppi. Dopo la fine della dittatura comunista negli anni 90, lo Stato etiope si è dato una costituzione federale, sul principio di uno Stato un’etnia. Il principio è stato voluto fortemente dai ribelli che presero il controllo del Paese, in quanto loro stessi erano nati originariamente come gruppo per la separazione della regione del Tigray dal resto dell’Etiopia, salvo poi decidere di puntare al governo centrale quando si reser conto di essere in grado di sconfiggere i comunisti al potere. Questo sistema però ha creato discriminazioni all’interno degli Stati federati, i quali non sono sempre etnicamente omogenei. In particolare, le popolazioni del sud del Paese, in mancanza di anche solo sommarie linee guida di divisione, si sono ritrovate ammassate in un solo Stato, provocando insoddisfazioni e conflitti tra le etnie.

Come se non bastasse, l’Etiopia ha dovuto affrontare guerre esterne con Nazioni che hanno tentato di sfruttarne la debolezza interna a proprio vantaggio, come la Somalia (ancora negli anni 80) e l’Eritrea una volta diventata indipendente proprio dall’Etiopia nel 1993. Proprio con quest’ultima, tra il 1998 ed il 2000, si è combattuto un sanguinosissimo conflitto, costato centinaia di migliaia di morti, per la definizione del confine tra i due Stati. Una Commissione ONU aveva stabilito un cessate il fuoco ed un arbitrato per stabilire quali villaggi spettassero alle due parti, ma l’Etiopia, al termine di questo, si era rifiutato di firmare il trattato di pace. Il risultato fu che entrambi i Paesi hanno mantenuto fino al 2018 un perenne stato di guerra, usato dai due governi per adottare politiche interne repressive e, in alcuni casi, inumane. Ahmed Ali ha quindi ereditato un Paese governato con il pugno di ferro dai militari ex-rivoluzionari, con giornalisti e oppositori politici in carcere, gruppi etnici costantemente in conflitto tra loro e una guerra silente con l’Eritrea da sciogliere.

La sua guida è stata da subito rivoluzionaria. Per prima cosa, ha liberato migliaia tra prigionieri politici e giornalisti. Dopodiché, si è detto disposto a firmare la pace con l’Eritrea ed in soli 3 mesi è riuscito nell’intento. Il suo mandato, in questo anno e mezzo, è stato basato sul tentativo di modernizzare e democratizzare l’Etiopia ed è riuscito a fare passi da gigante per il Paese. Questo però non basta. Le tensioni etniche sono ancora molto alte. A giugno, è avvenuto un tentativo di colpo di Stato con motivazioni etniche nello Stato dell’Amhara. Nel sud del Paese, il primo ministro ha promesso di creare un nuovo Stato federato, che però rischia di esacerbare ancora di più le tensioni al suo interno. Sicuramente il lavoro è ancora tanto, però Ahmed Ali è riuscito a ridare speranza in un Paese, come tanti in Africa, dove ormai esisteva solo rassegnazioni. Un esempio vero sia per l’Africa, sia per tutti quei Paesi, come abbiamo visto in Siria di recente, che invece di cercare il dialogo e la pace si lasciano incantare dalla guerra, la quale però, alla fine, porta sempre solo morte e sofferenza.

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