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Politica interna

Brexit. Due buoni motivi per non crederci

L’esito del referendum priverebbe il Regno Unito di un terzo del suo territorio e lo indebolirebbe nel contesto internazionale. La Germania non dovrebbe più fare i conti col suo storico contrappeso e consoliderebbe la sua egemonia nell’Unione

Dopo il clamoroso voto sulla Brexit, l’incertezza regna sotto il cielo degli inglesi ed ogni ipotesi sul loro futuro è plausibile. Solo ora chi ha votato per andarsene dall’Unione comincia a rendersi conto della gravità della sua scelta e a temere conseguenze per il l’economia, il lavoro, il welfare, la vita di tutti i giorni. Il clima festoso della mattina del 24 giugno è già svaporato ed anche i più incalliti difensori della insularità britannica si domandano come sia possibile uscire a testa alta dal cul de sac cui li ha condotti l’azzardo di Cameron.

I primi momenti del dopo Brexit sono stati appannaggio dei giuristi, che si sono messi ad  analizzare con la lente d’ingrandimento l’art. 50 del Trattato di Lisbona sulle procedure da seguire in caso di recesso di un membro dell’Unione. Vi si può leggere che lo Stato recedente deve notificare la sua intenzione al Consiglio europeo, che formulerà orientamenti per concludere un accordo secondo le procedure dell’art. 218 e cioè considerando detto Stato come Paese terzo. L’accordo deve essere concluso nel termine di due anni dal Consiglio stesso, previa approvazione del Parlamento e ha come conseguenza la inapplicabilità dei Trattati in vigore allo Stato estromesso. E’ una norma estremamente scheletrica, scritta quando la storia europea aveva alle spalle una lunga serie di allargamenti ed una normativa molto estesa per i nuovi ingressi, mentre i casi di recesso non si erano nemmeno mai profilati all’orizzonte e bisognava contemplarli solo per completezza logica.

Approssimandosi questo rischio, nel maggio scorso lo European Union Committee della Camera dei Lord aveva licenziato un rapporto con diversi approfondimenti e aveva suggerito tra l’altro che l’accordo dell’eventuale recesso venisse negoziato parallelamente ad un altro relativo alle nuove relazioni che sarebbero dovute intercorrere con l’Unione. Londra si è spinta più in là ed ha addirittura chiesto che il secondo negoziato precedesse il primo, ricevendo da Bruxelles un secco no testimoniato dal gelo col quale Cameron è stato accolto al Consiglio del 29 giugno e dalla contemporanea votazione del Parlamento europeo, che ha sollecitato l’immediato avvio della procedura di estromissione.

Già queste prime schermaglie procedurali fanno capire che il confronto sarà molto teso e destinato a salire di livello, quando saranno affrontate le due questioni principali. La prima riguarda l’integrità territoriale del Regno Unito. Come previsto, la Scozia ha votato largamente per il remain e non è per niente disponibile a seguire Londra. Il suo primo ministro, la Signora Nicola Sturgeon ha minacciato un nuovo referendum per l’indipendenza e per farsi capire meglio è andata ad incontrare le autorità di Bruxelles, dopo aver nominato un comitato di saggi per studiare gli aspetti giuridici e finanziari. Ha aggiunto poi che si farà sentire al Parlamento di Westminster ed eserciterà il diritto di veto previsto dalla  devolution del 1998 su tutte le questioni che tocchino gli interessi del suo territorio. C’è poi la questione dell’Irlanda del Nord, che sembrerebbe di minore importanza in termini di popolazione e territorio. Tuttavia qui il remain rischia di avere conseguenze esplosive, dopo essere prevalso in 11 dei 18 collegi elettorali. Martin McGuiness, leader del partito nazionalista Sin Féin e già affiliato all’Ira, ha detto non solo di voler restare agganciato a Bruxelles ma anche di voler riunificarsi con Dublino, minacciando di mettere in discussione gli accordi che nel 1998 hanno posto fine a 30 anni di guerra civile. Il quadro interno è poi reso ulteriormente complicato dal voto del Galles, dove Cardiff si è pronunciata per il remain diversamente dal territorio circostante, replicando su scala più piccola quanto successo a Londra.

La seconda questione riguarda il quadro geopolitico, che conseguirebbe ad un Regno Unito alla deriva e privato di un terzo del suo territorio. La Germania non avrebbe più fare i conti con il suo storico contrappeso e avrebbe buon gioco a consolidare la sua leadership nel continente, trasformandola in egemonia. E’ un obiettivo che coltiva da tempo, di cui abbiamo avuto chiara prova col trattamento riservato alla Grecia e al suo debito, quando era di importo relativamente modesto e tecnicamente risolvibile. Non ha voluto farlo, considerando la finanza un’arma per soggiogare i partner in difficoltà del tutto coerente con la linea del rigore confermata anche nei giorni scorsi all’Italia, che aveva chiesto per l’ennesima volta di cambiare marcia a favore di una politica di espansione economica e occupazionale. Una Germania onnipotente in Europa e per di più legata alla Russia da intrecci in campo energetico non piacerebbe a Washington; non solo ad Obama, che è andato a Londra a sostenere Cameron nell’imminenza del voto referendario, ma nemmeno ad un isolazionista come Trump che non può ridurre gli Usa ad un Paese sperduto fra due Oceani.

Sta alla politica, quella vera, trovare una soluzione ai problemi che il referendum ha fatto emergere. La voce dei cittadini è un aspetto importante della democrazia, ma non è tutta la democrazia. Governi e Parlamenti rivestono responsabilità aggiuntive e sono queste che giustificano l’architettura istituzionale degli Stati  occidentali. Il Regno Unito è in ebollizione. Il partito conservatore deve trovarsi un nuovo leader e deve farlo anche quello laburista, dopo che Jeremy Corbyn è stato sfiduciato dai suoi stessi adepti per il tiepido appoggio dato al remain. Fuori gioco sono finiti pure Farage e Johnson, nonostante abbiano vinto il referendum. Potranno esserci elezioni anticipate e potrà esserci magari una nuova consultazione popolare sui termini per restare  agganciati all’Unione, dopo esserne usciti. Westminster dovrà tirare le conclusioni e per farlo avrà bisogno di tempo. L’unico vero rischio è che la questione inglese oscuri troppo a lungo tutte le altre.

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