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Politica estera

Ultimi colpi dallo stato-nazione?

Un vecchio detto recita più o meno così: “l’asino scalcia più forte quando teme la morte”. Vedendo il moto di intolleranze e nazionalismi che crescono in tutto il mondo – culminati forse con l’inaspettata elezione di Trump, ma con numerose comparse prima e dopo questo inaspettato evento – mi viene da pensare che lo Stato si stia comportando proprio come un asino in pericolo. Molti commentatori vedono nel rafforzamento dei patriottismi un consolidamento delle nazioni, ma io credo che sia invece dovuto al motivo contrario.

Ci sono varie ragioni che mi guidano verso questa conclusione controcorrente. Primo, lo Stato ha ampiamente dimostrato di non essere in grado di gestire un mondo sempre più complesso e interconnesso. La globalizzazione ha aperto i flussi di persone, beni e denaro, portando gravi squilibri nelle bilance dei pagamenti e nelle diseguaglianze all’interno dei paesi, sebbene quella fra i paesi si stia riducendo. Secondo, la tecnologia ha peggiorato la situazione, svalutando il lavoro umano in favore del capitale fisico e introducendo ulteriore complessità. Alcuni colossi della finanza e dell’hi-tech oggi muovono più denaro di molti stati europei e finanziano pesanti attività di lobbying al fine di salvaguardare (più che legittimamente) i propri interessi. Gli stati rimangono alla finestra, incapaci di gestire qualsivoglia cambiamento.

Ciononostante, le soluzioni autoritarie sono sempre più popolari. Passiamo dalla restaurazione dell’identità religiosa (l’India di Modi, la Birmania e le Filippine), alle guerre per distrarre l’opinione pubblica dai risultati economici disastrosi (Russia con Crimea e Turchia con i curdi), all’aumento dei poteri presidenziali a discapito della libertà e dei diritti civili (Thailandia, Ungheria, Cina, Venezuela, etc.). Si stanno diffondendo dei piccoli regimi illiberali, che riescono a creare consenso attraverso la creazione di un nemico comune (razza, religione o storia diversa) e fanno leva sulla cittadinanza, l’unico bene di cui anche i poveri dispongono. Le epurazioni dei rohyngia in Birmania, il rifiuto degli immigrati in Europa e la lotta ai drogati nelle Filippine sono un chiaro esempio. Se alcune persone non vengono considerate degne della cittadinanza, chi ne gode i diritti si sentirà ancora più privilegiate e tenderà a chiudersi ulteriormente per proteggere i propri benefici.

Questi subdoli meccanismi nascondono l’incapacità di fronteggiare le dinamiche globali che presenta il nostro tempo. Nascono movimenti, come l’ISIS o il movimento curdo, che travalicano il confine dello stato e cercano l’identità in qualcosa di più ampio – nei due esempi sono la religione e l’etnia. Solo il 5% dei conflitti combattuti nel mondo dopo il 1989 sono avvenuti fra diversi paesi; il resto sono state guerre fratricide, causate da uno Stato che non sa rispondere alle tendenze centrifughe di diverse parti. Mentre le nazioni ottocentesche proponevano valori in cui riconoscersi – alcuni molto discutibili, come una presunta superiorità sugli altri popoli – gli stati contemporanei hanno perso l’appeal e i cittadini cercano risposte da altre parti.

Di fronte agli enormi cambiamenti che hanno portato la globalizzazione e la tecnologia, possiamo rispondere in due modi. O torniamo indietro, facendoci colpire dagli zoccoli dell’asino; oppure troviamo una valida alternativa alla politica di oggi. Alcuni tentativi, ad oggi ancora rozzi e goffi, sono già stati fatti. In Italia abbiamo una piattaforma per la democrazia diretta (Rousseau) che ha mille difetti ma che rappresenta una sfida al sistema. In ugual modo la blockchain potrebbe guidare e automatizzare molti processi politici che oggi risultano lenti, costosi e macchinosi. Le alternative non mancano, ma non vengono per nulla discusse. Nel frattempo, la democrazia perde tifosi: appena il 50% degli europei crede che quello attualmente in uso sia un sistema politico “buono” o “molto buono”. Quanto dovremo aspettare prima di una rivoluzione?

In questo contesto si inserisce la proposta di stati federali che superino i confini nazionali. In tal modo si riuscirebbe a guadagnare in potere contrattuale con i giganti della tecnologia – e le multe a Google da parte della Commissione ne sono un ottimo esempio – e si potrebbero controllare processi come il riscaldamento globale, la globalizzazione e le migrazioni. La politica tornerebbe a controllore la distribuzione della ricchezza e delle risorse, condizione necessarie per il prosperare di qualsiasi democrazia. Questa è l’unica proposta che potrebbe garantire la pace e la sicurezza dei cittadini; mi sembra davvero un’ultima chiamata che chiunque dovrebbe considerare, dopo aver preso atto dell’evidente fallimento dello stato-nazione. C’è chi dice che sia un’utopia, ma io invito sempre a considerare quante utopie vediamo realizzate oggi. Chi si aspettava, negli anni Trenta, che le donne avrebbero avuto pari diritto di voto? Chi avrebbe pensato che i neri sarebbero andati a scuola con i bianchi? Chi che avremmo avuto un dispositivo tascabile che ci indica la strada, fa fotografie in HD e svolge funzioni più avanzate del telegrafo per pochi soldi? Le utopie sono fatte per essere superate. Basta solo volerlo.

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