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Politica estera

Un mondo in rivolta

Da qualche mese a questa parte, in ogni angolo del globo, con sempre maggiore intensità e frequenza, più e più persone scendono in piazza per protestare contro i propri governi. Sudan, Hong Kong, Cile, Ecuador, Bolivia, Libano, Colombia, Iran, Iraq sono solo alcuni luoghi dove la rabbia popolare verso i governanti si è riversata nelle piazze, con alterne fortune. Paesi con culture diverse, religioni differenti e varie storie, uniti dalla voglia di rovesciare lo status quo. I movimenti di per sé sono scollegati tra loro, se non per l’obiettivo finale: più democrazia. Popoli interi che fremono per avere più equità e giustizia.

Il Sudan è stato il primo Stato ad aprire questa nuova stagione di rivoluzioni. Spinti dalla fame, mentre il Presidente Omar al-Bashir annunciava la costruzione di un nuovo palazzo da miliardi di dollari, nel dicembre del 2018 i sudanesi sono scesi in piazza chiedendo la deposizione del dittatore. Nonostante le repressioni, i rivoltosi riuscirono sia ad ottenerne la caduta nell’aprile 2019, sia a costringere i militari ad accettar la condivisione del potere con i civili.

Ad Hong Kong, da sei mesi la popolazione insorge contro le continue e sempre più pressanti ingerenze cinesi nella Regione Autonoma. Secondo l’accordo tra Regno Unito e Cina, Hong Kong sarebbe dovuta rimanere una democrazia per almeno 50 anni. Invece, il governo cinese, impaziente di soffocare questo alito di libertà al suo interno, ha imposto misure strettissime, come la facoltà di poter scegliere i candidati a governatore graditi e non. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la decisione dell’amministrazione locale pro-Beijing di presentare una proposta di legge che avrebbe permesso l’estradizione nella Cina continentale per chi avesse commesso certi reati, evitando così che gli accusati possano godere di certi diritti fondamentali. Il risultato è stato una marea umana scesa in piazza per chiedere democrazia, che non si ferma da sei mesi nonostante le minacce del governo e la violenza della polizia. C’è chi addirittura spera di ottenere l’indipendenza per l’ex colonia di Sua Maestà, con bandiere del periodo coloniale sempre presenti alle manifestazioni.

In Sud America invece, si combatte contro gli autoritarismi, la corruzione e le disuguaglianze sociali. Governi di tutto lo spettro politico, dalla sinistra alla destra, sono in costante difficoltà ed addirittura alcuni di questi Stati sembrano sull’orlo della guerra civile, come la Bolivia, dove il recentemente rieletto Evo Morales, accusato di brogli, è stato costretto a dimettersi dalle forze armate e lo spettro della dittatura militare è presente. Se in Libano ed Iraq le proteste sono avvenute per chiedere non solo più democrazia e meno corruzione, ma anche più laicità, in Iran si è scesi in piazza contro il regime islamico che regge il Paese dall’ormai lontano 1979. Il governo ha risposto con una brutalità senza precedenti, tagliando lo Stato fuori dal mondo chiudendo internet e reprimendo nel sangue qualsiasi tentativo di opposizione democratica. I capi della rivolta, se catturati, sanno già che aspetta loro la pena di morte. Con una situazione così mutabile e imprevedibile, è bene fermarsi un attimo a riflettere sulle motivazioni che spingono queste persone a rischiare la vita per avere più libertà.

Mentre in Europa è almeno un decennio che si parla di crisi del modello liberal democratico, dove i populismi avanzano perentori e sempre più Stati cadono sotto regimi autocratici, come Polonia, Ungheria e Turchia, nelle altre parti del mondo avviene la spinta completamente opposta. L’entusiasmo di questi popoli ci dovrebbe far comprendere quanto di prezioso possediamo in Occidente e come i principi ed i valori fondanti della nostra società debbano essere difesi con le unghie e con i denti da coloro che, pur di ottenere il potere, sarebbero ben disposti a svenderli e distruggerli. Perché la democrazia è, e sarà sempre, la cosa migliore che abbiamo.

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